sabato 31 maggio 2008

Nuova iniziativa Zippiweb - NO all'energia nucleare!


Nucleare? No,grazie!

Copia ed incolla il codice che trovi qui sotto sul tuo blog!







Parte oggi una nuova iniziativa del blog Zippiweb.
Zippiweb si definisce blog "DENUCLEARIZZATO", rifiuta l'idea del nucleare a tutti i costi come energia alternativa.
Ci sono paesi del nord Europa che hanno adottato già da parecchio tempo l'utilizzo sempre più massiccio di fonti energetiche alternative pulite e rinnovabili come il solare e l'eolico. Un esempio lampante è la Germania che pur avendo la metà del sole di Milano che a sua volta ha la metà del sole della nostra Sicilia ( quindi un quarto del sole della Sicilia = solo il 25% !!!!) continua ad installare pannellli solari! Chissà come mai??
Paesi come la Norvegia hanno già calcolato in quale anno raggiungeranno la totale indipendenza dal petrolio ( mi pare il 2012 ) come fonte energetica.
E in Italia? I nostri politici sono troppo impegnati a fare le scaramucce tra di loro per accaparrarsi le poltrone mentre gli altri paesi europei ci hanno sorpassato alla grande.
Sotto parecchi punti di vista siamo rimasti, come sistema paese, indietro di decenni!
E adesso cosa succederà? Tranquilli, è arrivato il ministro Scajola che in 5 (!) anni ha promesso la costruzione di 4 o 5 centrali nucleari che, tra l'altro, risolverebbero solamente il 10% del fabbisogno italiano.
Inutile dire che siamo al ridicolo, sono solo slogan pubblicitari come quello del ponte sullo stretto..........
Non sto qui a dilungarmi riguardo l'argomento centrali atomiche anche perchè chi mi segue sul blog avrà già avuto modo di leggere qualche parere esperto a riguardo tipo che ci vogliono almeno 10-12 anni prima dell'eventuale entrata in servizio della prima centrale nucleare sempre se partisse adesso la costruzione.
Più tutta la serie di problematiche, attualmente irrisolte, dalla questione scorie al prezzo dell'uranio che continuerà a salire causa minor disponibilità.
Zippiweb è a favore dell'energia solare ed eolica e dice NO ALL'ENERGIA NUCLEARE!
Persino la grande e malata America in questi ultimi 2 anni ha aumentato la produzione di energia dall'eolico a discapito del nucleare, chissà come mai??
Ho preparato il banner che vedete qui sopra e a lato con il relativo codice da prelevare in modo che chiunque voglia manifestare il proprio dissenso all'utilizzo del nucleare può esporlo nel proprio blog.
Una volta esposto mandatemi pure una e-mail con l'indirizzo del vostro blog/sito.
Sarò lietissimo di inserire il link qui sotto quindi......coraggio manifestiamo il nostro NO AL NUCLEARE!

Blog e Siti che hanno aderito all'iniziativa:

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venerdì 30 maggio 2008

Il nucleare non serve all´Italia


Ecco perché il nucleare non serve all´Italia
Presentato in questi giorni un dossier da Giuseppe Onufrio, direttore delle campagne Greenpeace Italia, Vittorio Cogliati Dezza, presidente nazionale Legambiente e Michele Candotti, direttore generale Wwf Italia, per svelare le “menzogne dei fautori dell’atomo”
Il nucleare non serve all’Italia. Questo il titolo del dossier presentato da Giuseppe Onufrio, direttore delle campagne Greenpeace Italia, Vittorio Cogliati Dezza, presidente nazionale Legambiente e Michele Candotti, direttore generale Wwf Italia, per svelare le “menzogne dei fautori dell’atomo”.

Si citano infatti nel dossier tutti gli slogan che vengono riproposti nella campagna mediatica a favore del nucleare...
Approfondendoli poi uno ad uno per dimostrarne l’assoluta infondatezza. Tra gli slogan più utilizzati il fatto che: è l’unica risposta concreta per fermare i cambiamenti climatici, è economico, permette di ridurre la bolletta italiana e la dipendenza dall’estero, è sicuro. Tutte «bugie, conti fasulli, favole» scrivono le associazioni ambientaliste «che servono a costruire una risposta emotiva da parte dell’opinione pubblica e un dibattito ideologico sui tabù e i divieti. Nella realtà si sta solo facendo il gioco di quei gruppi di interesse che si stanno candidando a gestire una montagna miliardaria di investimenti pubblici». Per le tre associazioni ambientaliste la soluzione per fermare la febbre del pianeta e ridurre la bolletta energetica italiana è molto più semplice dell’opzione nuclearista rilanciata dal ministro Claudio Scajola: è fondata sul risparmio, sull’efficienza energetica e sullo sviluppo delle fonti rinnovabili. Semplicemente perché è la via più immediata, più economica e sostenibile.
Sui costi, si sottolinea che gran parte del costo dell’elettricità da nucleare è legato agli investimenti per la progettazione e realizzazione delle centrali, che è almeno doppio di quanto ufficialmente dichiarato, e richiede tempi di ritorno di circa 20 anni. A cui vanno aggiunti i costi di smaltimento delle scorie e di smantellamento degli impianti. «Dove il Kwh nucleare costa apparentemente poco è perché lo Stato si fa carico dei costi per lo smaltimento definitivo delle scorie e per lo smantellamento delle centrali. E sono proprio queste spese ad aver scoraggiato gli investimenti privati negli ultimi decenni» si legge nel dossier.
Tant’è che tutti gli scenari - persino quello dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica - prevedono nei prossimi anni una riduzione del peso dell’atomo nella produzione elettrica mondiale. Secondo le stime dell’Aiea si passerebbe dal 15% del 2006 a circa il 13% del 2030, nonostante la ripresa dei programmi nucleari in alcuni paesi. In Italia, per il ritorno al nucleare occorrerebbe costruire da zero tutta la filiera, con un immenso esborso di risorse pubbliche. Per le 10 centrali, ipotizzate come necessarie per abbassare i costi della bolletta energetica, servirebbero tra i 30 e i 50 miliardi di euro di investimenti (con il forte rischio di sottrarre risorse allo sviluppo delle rinnovabili e dell’efficienza energetica), cui aggiungere le risorse per gli impianti di produzione del combustibile e il deposito per lo smaltimento delle scorie. Le centrali, nella migliore delle ipotesi, entrerebbero in funzione dopo il 2020, e gli investimenti rientrerebbero solo dopo 15 o 20 anni.
Sulla sicurezza degli impianti ancora oggi, a oltre 22 anni dall’incidente di Chernobyl, non esistono garanzie per l’eliminazione del rischio di incidente nucleare e la conseguente contaminazione radioattiva. E quanto alla possibilità di rimettere la speranza di sicurezza nella quarta generazione, si deve aspettare almeno il 2030 per vedere (forse) in attività la prima centrale. Rimangono poi tutti i problemi legati alla contaminazione “ordinaria”, derivante dal rilascio di piccole dosi di radioattività durante il normale funzionamento delle centrali, a cui sono esposti i lavoratori e la popolazione che vive nei pressi. C’è poi il problema non risolto delle scorie: le 250mila tonnellate di rifiuti altamente radioattivi prodotte finora nel mondo sono tutte in attesa di essere conferite in siti di smaltimento definitivi. Cosa che vale anche per il nostro Paese che conta secondo l’inventario curato da Apat circa 25mila m3 di rifiuti radioattivi, 250 tonnellate di combustibile irraggiato, a cui vanno sommati i circa 1.500 m3 di rifiuti prodotti annualmente da ricerca, medicina e industria e i circa 8090mila m3 di rifiuti che deriverebbero dallo smantellamento delle centrali e degli impianti del ciclo del combustibile, fermi dopo il referendum del 1987.
Infine la favola che il nucleare sia la risposta ai cambiamenti climatici, viene contraddetta dagli stessi tempi di realizzazione. «Se si avesse come obiettivo il raddoppio delle centrali nucleari esistenti entro il 2030, rimpiazzando anche quelle che andranno a fine vita nei prossimi 20 anni- si legge nel dossier- l’effetto sulle emissioni globali sarebbe di una riduzione solo del 5%» E occorrerebbe aprire una nuova centrale nucleare ogni 2 settimane da qui al 2030, oltre a spendere un cifra tra 1000 e 2000 miliardi di euro, aumentando di molto i rischi legati a incidenti, alla proliferazione nucleare, e ingigantendo la questione delle scorie.
«Inoltre la produzione nucleare è solo apparentemente esente da emissioni di Co2, dal momento che gli impianti nucleari per motivi di sicurezza richiedono enormi quantità di acciaio speciale, zirconio e cemento, materiali che per la loro produzione richiedono carbone e petrolio». Ma anche le altre fasi della filiera nucleare, dall’estrazione del minerale d’uranio, alla produzione delle barre di combustibile, fino al loro stoccaggio e riprocessamento sono talmente rilevanti che «complessivamente le emissioni indirette della produzione di un kWh da energia nucleare è stato calcolato essere comparabile con quella del kWh prodotto in una centrale a gas».
In Italia - si legge nel dossier - scegliere l’opzione nucleare significherebbe mettere una pietra tombale su qualsiasi prospettiva di riduzione delle emissioni di Co2 Se la priorità fosse realizzare centrali nucleari, poiché gli investimenti sono economicamente alternativi, dovremmo dire addio agli obiettivi comunitari e vincolanti del 30% di riduzione delle emissioni di CO2, del 20% di produzione energetica da rinnovabili e del 20% di miglioramento dell’efficienza energetica al 2020. Uno scenario che consente di sviluppare imprese innovative, realizzare migliaia di nuovi posti di lavoro nella ricerca e sviluppo, avere città più moderne e pulite, a portata di mano anche nel nostro Paese nonostante il suo grave ritardo rispetto agli obblighi di Kyoto. Le associazioni hanno dato quindi l’appuntamento il 7 giugno a Milano per la manifestazione In marcia per il clima «per promuovere il cambiamento e l’innovazione nelle scelte energetiche e infrastrutturali».

Fonte: www.greenreport.it
Fonte: www.promiseland.it

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giovedì 29 maggio 2008

Per non dimenticare.....


Chernobyl Decay and Deformed



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Nucleare? No, grazie


Il comitato di affari PDL e PD-meno-elle ha deciso che il nucleare si deve fare. Il futuro economico, energetico, industriale dell’Italia è legato al nucleare. I media si sono subito allineati, sanno che l’opinione pubblica è contraria. Nelle prossime settimane, nei prossimi mesi, attraverso dati, pubblicazioni scientifiche, testimonianze, video, interviste dimostrerò il contrario. Non è difficile.Nucleare? No grazie.Nel 1987 venti milioni di italiani hanno votato un referendum contro il nucleare. Scajola e la Marcegaglia contano più della volontà degli italiani? Chi li autorizza a prendere decisioni a nome del popolo italiano?Si vuole il nucleare? Si tenga un nuovo referendum. Se gli italiani voteranno a favore, allora si potrà fare. Altrimenti no. Non si possono costruire centrali nucleari ignorando il risultato di un referendum popolare.Scajola vuol fare lo sconto sulla bolletta a chi acconsentirà alle centrali nucleari vicino a casa. Dia lui l’esempio con una discarica di scorie nucleari nel suo giardino. La bolletta gliela pago io.Ci sono molti comuni denuclearizzati in Italia, comuni sovversivi, sobillatori, pericolosi organizzatori di energie alternative. Ma non sono ancora abbastanza. Chiedo ai sindaci di esporre il cartello: “Comune denuclearizzato” sotto il nome del loro paese. E’ il miglior benvenuto per chi lo visita.

Fonte: http://www.beppegrillo.it/


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Vattelapesca forever


Ringrazio Fricca del blog Rododentro per l'immagine

di Carlo Bertani – 28 maggio 2008
“Puoi raggiungere risultati altamente superiori con un team molto motivato, che dispone di macchinari vecchi e fatiscenti dislocati in un vecchio capannone, rispetto a quello che riuscirai a raggiungere con un team demotivato e privo di stimoli, che ha accesso alle migliori attrezzature e infrastrutture.”

Reinhold Würth, imprenditore tedesco che ha costruito, partendo da una ferramenta, un’azienda di levatura mondiale, che occupa 51.000 dipendenti e che spazia dai sistemi di fissaggio ai pannelli solari.
A dire il vero, non meriterebbe nemmeno d’interessarsi alle vicende della misera borghesia italiana, tanto è diafana e poco incisiva nel panorama europeo; verrebbe da dire: lasciamo questi poveri parvenu in SUV al loro misero destino, se il loro fato non intersecasse il nostro.
Era tanto tempo che non s’udiva un condensato di bugie e pessime intenzioni – di tal, miserrimo livello – in una relazione di Confindustria: anche gli imprenditori italiani confermano l’andamento “in picchiata” del Paese.
L’assemblea, che ha accolto Emma Marcegaglia come novella presidentessa degli industriali italiani, è iniziata con un minuto di silenzio per l’oramai quotidiano morto sul lavoro. Probabilmente, sicuri delle statistiche, erano riusciti a programmare già tutto il giorno prima. Avrebbero potuto fare tre ore di silenzio, perché il resto del tempo è servito soltanto a sparare cavolate a fiumi.
La prima uscita è in perfetta sintonia con il minuto di silenzio, per uno dei tanti poveracci che crepano nei lager italiani definiti “luoghi di lavoro”: de-tassazione degli straordinari! Evviva! Siamo con te – echeggiano – Veltrusconi in sala.
Chi ha un minimo di conoscenza del lavoro, anche un semplice delegato sindacale, dovrebbe conoscere gli studi che da decenni si attuano sul rapporto fatica/lavoro, ossia sulla stanchezza del lavoratore.
Senza entrare troppo nei particolari né ingombrare spazio con grafici, si sa che l’attenzione è vigile nelle prime quattro ore di lavoro, poi inizia a decrescere nelle successive due, mentre nelle ultime due finisce per crollare. Non bisogna essere degli scienziati per capirlo: chiunque lavori od abbia lavorato lo sa.
In un Paese flagellato da anni, sempre più, dalla piaga dei morti sul lavoro, la “bella pensata” è quella d’aggiungere altre ore di lavoro all’orario: dai, che così ti porti a casa una bella “busta”! Insieme alla roulette russa.
Veltrusconi plaude.
E’ naturale pensare che, se aggiungiamo ore di lavoro, la fatica aumenta, la qualità del lavoro decresce ed il rischio di farsi male aumenta enormemente.
Risultato: lavoratori sempre più stanchi, maggior incidenza del rischio.
Per lor signori, invece, gli straordinari significano meno persone impiegate (e, quindi, minori costi fissi) ed un maggior sfruttamento del singolo lavoratore. Ne crepa qualcuno? E beh? Quanti minuti di silenzio si possono fare nelle ventiquattr’ore?
Il denaro può rappresentare certo una motivazione, ma se il lavoratore – proprio perché sono sempre meno e lavorano di più – quando torna a casa ritrova i figli disoccupati o sotto-occupati, che fa? S’attacca ai 200 euro di straordinario?
Il modello proposto, e benedetto da Veltrusconi – inutile girare intorno al problema – è quello americano: paghe basse, lunghi orari di lavoro, poche vacanze. Insomma: trotta e galoppa (se ci riesci) in silenzio. E’ sotto gli occhi di tutti quale “miracolo economico” stiano vivendo gli USA con questa impostazione.
E veniamo alla seconda “pensata” di Emma. Per scaldare la platea, è sempre utile dare addosso ai fannulloni, che sono identificati con i maledetti statali. Emma non pensa che, così parlando, demotiva ancor più milioni di statali, ma Emma non ha una cultura dello Stato: d’altro canto, la classe imprenditoriale italiana non ce l’ha mai avuta.
Veltrusconi, in sala, ammicca.
Emma, però, non si è nemmeno informata; allora provvediamo noi a fornirle qualche dato, perché qui siamo oramai arrivati alla nota teoria: “dammi tre mezze bugie e ti costruisco una mezza verità”.
Emma e Veltrusconi non sanno (e, da parte di Veltrusconi, è più grave) che la Ragioneria Generale dello Stato – alcuni mesi fa – aveva promosso una rilevazione su base nazionale per conoscere la situazione delle assenze per malattia nel pubblico impiego. L’esigenza era scattata dopo l’esternazione del predecessore di Emma, il Lucherino da Montezemolo, il quale aveva urlato, inorridito: «Si assentano tre volte i loro colleghi del settore privato! Ci costano 14 miliardi di euro l’anno!». Dovessimo mai fare i conti di quanto ci è costata la FIAT.
Comunque, ecco i giorni d’assenza, elaborati dalla CGIA di Mestre su quelli forniti dalla Ragioneria Generale dello Stato:
Ministeri: 14,31
Corpi di polizia: 13,31
Agenzie fiscali: 13,11
Presidenza del Consiglio: 12,95
Regioni e nelle Autonomie locali: 12,73
Enti non Economici: 12,69
Sanità: 12,40
Enti di ricerca: 11,38
Regioni a statuto speciale e le province autonome: 7,31
La media ragionata, sulla base dei dipendenti in servizio nelle varie amministrazioni eseguita dalla CGIA di Mestre, è di 11,54. Quella dei lavoratori metalmeccanici del settore privato è di 9,6. Differenza: 1,94 giorni l’anno – meno di due giorni! – per un costo di circa 4 miliardi di euro, non 14 come aveva urlato il Lucherino. Va bene che gli zeri davanti non contino nulla, ma gli “ 1” qualcosa contano.
Evidentemente, Lucherino, Emma & Veltrusconi hanno bisogno di qualche ripetizione in Matematica: oppure, dovrebbero tornare a scuola “d’onestà”, visto che i dati sono ufficiali, emanati dalla Ragioneria Generale e disponibili per tutti sul Web.
E due.
Il terzo boccone è di quelli ghiotti, perché Emma si lancia nell’agone energetico: e facciamo ‘sto nucleare! Berlusconi fa finta di dire sì, Veltroni finge di dire no. Ad entrambi, frega assai poco: lasciamola dire. Scajola assicura che sarà posata la “prima pietra” di quattro centrali entro pochissimi anni. All’uomo che osò definire “un rompicoglioni” Marco Biagi, a cadavere ancora caldo, avremmo molti consigli da dare sul come utilizzare quella prima pietra. Ne basterebbe una.
Abbiamo però una buona notizia da fornire ai tanti, infervorati sostenitori dell’atomo: il problema delle scorie è stato risolto!
Non possiamo, ovviamente, rivelare qui le nostre fonti, ma possiamo assicurare che esiste già l’assenso di un Comune italiano per la custodia del materiale nucleare esausto prodotto dalle centrali.
Possiamo rivelare solo il nome del comune: nulla più. Ovvio: c’è il segreto di Stato su tutto, oramai, anche sul rubinetto del gas sul balcone. Lo vuoi spostare? Ti mandano il SISMI.
L’ameno borgo appenninico di Vattelapesca ha già assicurato patron Berlusconi che, grazie ad alcune provvidenziali caverne, sarà possibile stivare nelle profondità della terra tutte le scorie, in modo sicuro e per sempre.
Silvio si è commosso: ha promesso al Sindaco che costruirà nel comune di Vattelapesca Milano 12 e – per almeno un decennio – dagli studi TV che costruirà nella città satellite s’esibiranno ogni sabato sera Maria de Filippi, Mariano Apicella e Mara Carfagna. Come soubrette, ovviamente. Perché: fa dell’altro?
I costi per la ristrutturazione delle caverne sono stati stimati in circa 2,4 miliardi di euro: tutto sommato, un terzo del Ponte di Messina. Un affare: tanto, pagheranno i nostri figli e nipoti.
Un vero e proprio fremito di gioia ha colto la lobby nucleare: pare addirittura che il professor Franco Battaglia, pasdaran dell’atomo, voglia esibirsi in un brano soul intitolato “My sweet reactor”.
I costi dell’impresa sono stati “girati” sulla scrivania di Tremonti il quale – in compagnia dell’inseparabile calcolatrice a manovella – li sta esaminando. Anche qui, grazie ad una “gola profonda”, siamo riusciti a sbirciare.
Le centrali in costruzione saranno quattro, ciascuna per una potenza massima di 1.350 MW: complessivamente 5.400 MW di nuova potenza elettrica, circa 1/10 se la calcoliamo sui picchi di richiesta della rete.
La potenza totale annua che si riuscirà ad ottenere – 24 ore su 24 per 365 giorni – sarà di 47.304.000 MWh, che sarà disponibile per circa 25 anni. Oddio, le moderne centrali durano anche di più, ma dobbiamo considerare i notevoli costi di manutenzione delle stesse su lunghi periodi. Insomma (forse) le attenuanti compensano (difficilmente) le aggravanti.
Quanto renderanno?
Qui, la materia è complessa. I costi del nucleare dipendono in gran parte da chi si assume l’onere dell’arricchimento dell’Uranio: se, come in Francia, sono i militari a farlo, una bella fetta dei costi sembra scomparire. In realtà, cambia solo capitolo di bilancio e viene “spalmata” sulla fiscalità generale.
Altri Paesi, come la Germania – che non hanno armamento nucleare – hanno costi maggiori. Il MIT (USA: paese con armamento nucleare) stimava alcuni anni fa un costo di 65 $ il MWh, mentre in Europa ci si orienta fra gli 82 euro della Francia ed i 118 della Germania. Si tratta di una stima, ricavata dal prezzo di vendita dell’energia alle industrie[1].
L’Italia, non avendo armamento nucleare, s’avvicinerebbe forse di più alla Germania, ma siamo ottimisti: 100 euro il MWh e non ne parliamo più.
Di conseguenza, in quei 25 anni le centrali renderebbero 118.260.000.000 euro di controvalore, ossia circa 118 miliardi di euro.
Fin qui, tutto bene e Tremonti si strofina le mani. Poi, si passa ai costi.
Tremonti non valuta l’andamento del prezzo dell’Uranio – in crescita esponenziale – perché non è suo compito, e nemmeno s’interessa alle stime della IEA[2]: circa 40 anni d’Uranio a questi prezzi ed agli attuali consumi, poi si va al raddoppio (sempre che i cinesi non si “mangino” tutto) per altri 40 anni. Quindi, fine dell’Uranio.
Ovviamente, un sito così importante richiede un’attenta sorveglianza militare: almeno un paio di compagnie più il comando e la logistica. Una cinquantina di dipendenti civili (amministrazione, mensa, comunicazioni, ecc) e siamo a duecento persone, dal fantaccino al grande dirigente.
Ci sono poi i costi fissi per la manutenzione e le compensazioni che il comune di Vattelapesca ha richiesto e che sono state – per ovvi motivi politici – subito accettate.
Riassumendo:
Potenza prodotta in 25 anni: 1.182.600.000 MWh
Controvalore economico: 118 miliardi di euro.
Spese annue:
Stipendi annui (3000 euro mensili medi lordi): 7.800.000 euro
Compensazioni richieste da Vattelapesca: 180.000 euro
Spese di manutenzione (automezzi, energia, comunicazioni, ecc): 45.000 euro
Per un totale di 8.045.000 euro, circa 8 milioni annui. Beh, poteva andare peggio – pensa Tremonti – prima di verificare gli anni di spesa.
Gli anni di spesa sono circa 20.000 – legge dal foglietto che gli ha lasciato Scajola… – e facciamo ‘sta moltiplicazione…
Rattle, rattle, rattle…
Fanno 160.900.000.000 euro, 160 miliardi, quasi una volta e mezza il ricavato d’energia. Tremonti fa spallucce: saranno cavoli dei futuri ministri economici.
Ciò che c’è di veramente allucinante in questa follia è quel numero – 20.000 – che corrisponde a grandi linee al tempo di decadimento delle scorie. Se le centrali inizieranno a funzionare nel 2025 e termineranno – poniamo – nel 2050, nel 22.050, finalmente, a Vattelapesca potranno chiudere baracca e buttare tutto nel cassonetto.
Ma, qualcuno si rende conto di cosa sono 20.000 anni?
Se riflettiamo sulla storia che conosciamo – a partire da tradizioni scritte convincenti – pur esagerando, non giungiamo a 2500 anni. Di questi due millenni e mezzo, solo gli ultimi 200 anni sono stati, in qualche modo, “tecnologici”.
Con una “bordata” alla platea degli imprenditori italiani, Emma non racconta ciò che succederà a Vattelapesca nei prossimi 20.000 anni. Potremmo azzardare:
Nel 3456 un terremoto distrugge l’impianto: ricostruzione totale.
Nel 4215 l’Unione Africana attacca dallo spazio e colpisce Vattelapesca, insieme ad altre 80 città italiane.
Nel 13467 un’epidemia sconosciuta falcia la popolazione ed il sito viene abbandonato…
Siamo alla completa follia.
Qualcuno potrà azzardare che si troveranno altre soluzioni…che nasceranno nuove tecnologie…bla, bla, bla…la realtà, è che oggi questo è lo stato dell’arte, non altro. Vattelapesca forever.
Nessuno, ovviamente, riflette un solo secondo sul significato reale di “20.000 anni” e nemmeno si sogna di comunicare che, negli USA, la produzione eolica reale (non la potenza di picco) ha superato di gran lunga quella nucleare. Che la Danimarca ha raggiunto il 20% di produzione elettrica di sola fonte eolica.
Nei cantucci, qualcuno inizia a far conti: se sommiamo i 7 miliardi del Ponte con i 14 della TAV, più…quanto le centrali? 6-8? Bene! E Vattelapesca? Peccato, solo 2 miliardi…comunque…somma: sant’Iddio, che manna!
E tre: questo è il livello di chi dovrebbe guidarci.
Intanto, in platea, Veltrusconi gongolano e si scambiano battute: «Hai visto, io, con Maroni? 61 anni e 36 di contribuzione!» Attacca Berlusconi. «Niente da fare, amico mio, ti ho battuto con il “mio” Damiano: 62 anni e 37 di contribuzione!», risponde il Veltro. «Siamo una bella squadra», conclude il Berlusca.
La nostra rampante presidentessa ascolta, e riesce ad intendere qualche brandello del dialogo. Qui – pensa – con quei due che blaterano sulle pensioni, corro il rischio di giocare la parte della bella statuina. Supera allora il grande Houdini e rilancia: «Le pensioni? Fine dell’età fissa per andarci (come se esistesse ancora…): “indicizziamo” la pensione alla previsione di vita!» Scroscio d’applausi. Sì, qualcuno aggiunge: così le donne – in una sola “botta” – aumentano d’almeno dieci anni!. Risate, pacche amichevoli: l’atmosfera si galvanizza.
Un tempo s’indicizzavano i salari, ossia la ricchezza prodotta, oggi t’indicizzano gli anni che ti restano da vivere. Ogni anno, l’occupazione nelle grandi imprese decresce pressappoco dell’1% e la produttività, ossia la ricchezza prodotta, cresce dell’identico valore: se vent’anni fa, con 100 operai si costruivano 100 automobili, oggi con 80 se ne fanno 120. Ci saranno pure i costi d’investimento, ma il rapporto fra le retribuzioni degli operai e dei dirigenti è passato da 1:100 ad 1:7000. Traccia evidente delle tasche nelle quali vanno a finire quelle 20 automobili in più, ed il risparmio di 20 operai.
Un anno fa la benzina costava 1,25: adesso 1,50. La pasta 60 cent il pacco, oggi la stessa confezione costa 90 cent. Veltrusconi tace: qui, è meglio non parlare di “indicizzazione”…
In questa “indicizzazione” della vita delle persone c’è tutta la protervia e la spocchia della razza padrona: noi siamo i proprietari delle vostre vite, del sangue e della linfa che scorre nei vostri corpi e ce la aggiudichiamo a colpi di riforme scritte dai nostri lacché veltrusconiani.
Non esiste più una semplice vita, così, senza aggettivi: esiste solo una vita lavorativa, produttiva, fruttifera (per noi eletti). Non può esserci decrescita, scelta, contrazione d’inutili consumi: no, più orpelli sugli scaffali dei supermercati, più vita smarrita fra le catene di montaggio, più soldi per noi e per le nostre banche. Veltrusconi tace ma gongola: sa che avrà la giusta mercede, i trenta denari della tradizione.
La razza padrona finge d’essere il “motore” della Nazione, dimenticando che – senza i muratori – Michelangelo non avrebbe mai costruito la cupola di San Pietro.
Cos’ha costruito questa generazione di padroni del vapore? Ricordo anni lontani, quando ad Ivrea esisteva un’azienda in grado di produrre processori e software almeno di pari livello rispetto alla IBM americana. IBM varava il processore 286, Olivetti rispondeva con l’M24, diventando il secondo produttore mondiale di PC. Passano gli anni e, oggi, ad Ivrea gli stabilimenti Olivetti si sono trasformati nella solita archeologia industriale abbandonata: vetri rotti, ruggine, abbandono, dove un tempo gli Olivetti avevano costruito addirittura gli asili nido interni – tutto vetro, affinché i bambini potessero avere il meglio – per aiutare, e di conseguenza motivare, le loro maestranze. Quella era gente che poteva stare al livello di Reinhold Würth.
Quel che poi è avvenuto ha nome e cognome: Carlo de Benedetti, grande boiardo di Stato, capace d’acquistare la SME per un terzo del suo valore, condannato in primo e secondo grado per la vicenda del Banco Ambrosiano. Assolto poi, provvidenzialmente, dalla Cassazione.
De Benedetti dapprima trasformò un’attività produttiva – Olivetti – in una società di servizi, Omnitel, che infine divenne Vodafone. Si potranno raccontare mille storielle sulla vicenda de Benedetti, ma la realtà è una sola: l’ingegnere torinese, per Ivrea, è stato peggio di Gengis Khan. Deserto.
L’altro bravo messere è morto suicida (almeno, questa è la verità ufficiale), ma vale la pena di ricordare come Raul Gardini riuscì a distruggere la chimica italiana in pochi anni di corruzione e d’incompetenza, a braccetto della classe politica dell’epoca, con l’affaire Enimont. Sono lontani i tempi dei premi Nobel per la Chimica italiani: oggi, la chimica italiana non esiste praticamente più.
Poi, per decenni, lor signori sono andati a braccetto con la classe politica per il “sacco” dei fondi europei: con l’abile trucco d’assegnare alle Regioni la concessione dei fondi – le quali coinvolsero poi le Province – si riuscì a non dare una sola moneta senza, in cambio, ricevere qualcosa. Oggi, mentre Spagna ed Irlanda hanno mantenuto allo Stato la concessione dei fondi, possiamo osservare i risultati: capannoni abbandonati, costruiti in fretta per acchiappare i soldi, per avere i finanziamenti. E dopo?
Dopo…pagheremo un buon avvocato, se necessario, ma il più delle volte non ce n’è stato bisogno. Se un De Magistris scopre l’inghippo – la questione dei depuratori in Calabria, storia di fondi europei – si caccia il magistrato. L’imperativo è uno solo: prendi i soldi e scappa.
Ci sono anche bravi imprenditori, onesti e fantasiosi, che cercano di trasferire nella realtà il parto del loro ingegno: il più delle volte, si vedono surclassati dal furbacchione di turno che cerca solo appoggi politici. Il grave problema – tutto italiano – è che non sono certo questi imprenditori ad essere spalleggiati da Emma: l’interlocutore è, sempre, il potere politico colluso. Se Reinhold Würth è partito da una ferramenta ed ha costruito un impero, anche i Tanzi sono partiti da una salumeria: il primo si è espanso anche nel settore del fotovoltaico ed ha creato un’ampia collezione d’arte. Il secondo, ha finito per falsificare certificati di credito con lo scanner.
Questa è la differenza fra una classe imprenditoriale – che guadagna, certo, per i rischi che corre e per le energie che investe nell’impresa – ed una di zecche lustrate a festa, solo buone a succhiare il sangue della nazione. Qualcuno s’è accorto che, con la de-tassazione degli straordinari, avverrà semplicemente che parti di produzione verranno spostate dall’area dell’orario normale allo straordinario? In pratica, elusione fiscale occulta.
Perché tutto ciò può continuare di fronte alla platea degli italiani i quali, ordinatamente, si mettono in fila – almeno 70 su 100 – per approvare Veltrusconi e i suoi Casini?
Hanno ragione quelle voci che stanno gridando da tempo – ciascuno con modi e stili diversi – al naufragio dell’informazione: Travaglio, Grillo, Barnard…
Il cortocircuito inizia nelle redazioni dei giornali e delle TV, nell’assurda catena di “supervisori” che un giovane deve superare per essere ammesso alla professione: in pratica, c’è sempre qualcuno che deve garantire per te, altrimenti sei fuori.
Quando, finalmente, il giornalista approda ad una scrivania, per anni avrà sempre un direttore responsabile che gli terrà il fiato sul collo: quando reagirà, finalmente, come i cani di Pavlov, allora riceverà la sua poltrona di comando.
Se qualcuno, poi, sgarra, sono pronte le contromisure: qualcuno ricorda perché la RAI – in anni lontani – cacciò un grande attore come Dario Fo, premio Nobel per la Letteratura ? Dario Fo fa notizia: i tanti che non s’assoggettano, finiscono fuori nel più agghiacciante silenzio.
In questo modo, la classe politica e quella imprenditoriale possono progettare, allenarsi ed eseguire i pessimi concerti che ci ammansiscono: perché non c’è contraddittorio, opinione a confronto, nulla.
E, attenzione: potremmo affermare che l’intera Europa è prigioniera del potere finanziario che si sostanzia in queste performance. Solo in Italia, però, la rappresentazione va in scena con una scenografia, oramai, sudamericana. Per quel che era il Sud America vent’anni fa.
Mediocri capitani d’industria hanno bisogno di pessimi politici, i quali si servono di sedicenti giornalisti per raccontare montagne di balle. Voilà, signori: il pranzo è servito.

Carlo Bertani articoli@carlobertani.it http://www.carlobertani.it/ http://carlobertani.blogspot.com/



[1] Fonte: Romanello, Lo Monaco, Cerullo, I veri costi dell’energia nucleare, Pisa, 2006 (pdf).
[2] International Energy Agency.

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mercoledì 28 maggio 2008

Google vuole mappare il tuo DNA

L’investimento su Navigenics da parte del gigante della ricerca su Web è un’ulteriore prova del fatto che vuole puntare tempestivamente sulla mappatura genetica direct-to-consumer.

Il co-fondatore di Google Larry Page pronuncia un importante discorso all’ International Consumer Electronics Show il 6 gennaio 2006 a Las Vegas, Nevada.

Il tuo DNA finisce nel regno delle ‘informazioni a livello mondiale’, e sembra che Google (GOOG), come parte della sua missione aziendale, stia cercando di organizzare anche questo. Il gigante di Internet ha ricevuto una cattiva stampa nel 2007 quando investì almeno 4.400 millioni di dollari (BusinessWeek.com, 29/11/07) in una compagnia specializzata nella mappatura del DNA, 23andMe, che fu avviata da Anne Wojcicki - la moglie del co-fondatore di Google Sergey Brin - e dal suo socio in affari.

L’interesse di Google per il DNA non finisce qui. Sta investendo del denaro anche in una seconda startup di mappatura del DNA nella Silicon Valley, Navigenics. La compagnia è anche sostenuta dalla brillante società di venture capital Kleiner, Perkins, Caufield & Byers. Per uno sputo di saliva e 2.500 dollari, i risultati del tuo test genetico sono inviati in maniera sicura sullo schermo del tuo computer con le probabilità genetiche relative a 18 condizioni mediche, dall’Alzheimer alle artriti reumatoidi e diversi tipi di cancro. Navigenics punta ad aumentare la prevenzione di malattie fornendo agli utenti informazioni sul loro DNA che loro possono condividere con i propri dottori. L’indirizzo di privacy della compagnia consiste nel criptare le identità degli utenti, e trasmetterle solo qualora ritenga abbiano i requisiti di studi genetici scientificamente sensati. La società offre anche consulenza genetica.

Nello stesso modo in cui ha investito in 23andMe, Google vuole mettere una prima quota in un mercato nuovo e potenzialmente vasto relativo ai dati genetici. "We are interested in supporting companies and making investments in companies that [bolster] our mission statement, which is organizing the world's information and making it universally accessible and useful," Google spokesman Andrew Pederson say"Noi siamo interessati a sostenere e a fare investimenti in società che [rafforzano] il progetto della nostra missione, che è organizzare le informazioni a livello mondiale e renderle universalmente accessibili e utili", ha affermato il portavoce di Google, Andrew Pederson

Non rivelate le proporzioni dell’investimento

Chiamando 23andMe un esempio di compagnia “che genera un’intera nuova serie di informazioni che interessano una vasta gamma di persone," Pederson sostiene che Google voglia estendere le proprie capacità di ricerca ad un test genetico. Il percorso esatto e i profili dell’affare commerciale dell’emergente mercato di test sui geni resta da chiarire, ma se Navigenics funziona “genererà una quantità consistente di un nuovissimo tipo d’informazione di un valore potenzialmente di vasta portata" sostiene Pederson. "Sentivamo che era importante inserirsi adesso, al primo stadio, per capire meglio l’informazione generata da questo campo che si muove velocemente."

Se la mappatura genetica risulta popolare, la nascente tecnologia è di giovamento ad Affymetrix (AFFX), che non solo ha investito in Navigenics ma realizza anche il sistema GeneChip usato nel test e gestisce il laboratorio che Navigenics usa per analizzare il DNA degli utenti. Altri ex allievi di Affymetrix occupano posizioni chiave in entrambe le startup di test sui geni: Sean George è dirigente di servizio e Stephen Moore è consulente principale a Navigenics; Linda Avey co-dirige 23andMe. Anche un ex presidente di Affymetrix, Sue Siegel, è a bordo di Navigenics.

L’interesse di Google nella compagnia sembra essere puramente finanziario. Sia Navigenics che Google si rifiutano di rivelare le dimensioni dell’investimento. "Nonostante Google sia un investitore finanziario in Navigenics, non hanno accesso ai nostri dati; noi non facciamo pubblicità" dice Amy DuRoss, responsabile della politica e degli affari alla Redwood Shores (Calif.)- di base a Navigenics.

Accalappiare lo star power a SoHo

I tentativi di Google di affermarsi nelle tecnologie di mappatura genetica "potrebbero dire più riguardo Google e la sua direzione aziendale e questa particolare fetta dell’area della biotecnologia piuttosto che su Google come azienda," osserva Scott Kessler, un analista azionario per della Standard & Poor che segue Google. (S&P, come BusinessWeek, appartiene alle aziende della McGraw-Hill (MHP)). Brin e il socio Larry Page "hanno interessi che vanno ben oltre il business della ricerca su Internet e perfino oltre il business dei media online."

Le notizie relative all’investimento di Google arrivano mentre l’azienda di mappatura genetica conclude un lancio di un prodotto di quasi due settimane con un dibattito pubblico di esperti e uno storefront pubblico a Manhattan nella sezione chic di SoHo. Accalappiando lo star power, grandi nomi nella finanza e nella politica – per non menzionare un piccolo lancio pubblicitario da una Internet powerhouse — Navigenics spera che la sua nuova Health Compass diventi lo strumento di svolta per inaugurare una nuova era di sanità personalizzata e preventiva.

"Su tutte queste nuove svolte genetiche c’è sempre qualche resistenza a livello culturale," ha sostenuto l’ex Vicepresidente Al Gore, nuovo socio della Kleiner Perkins, l’8 aprile a un dibattito pubblico di esperti patrocinato da Navigenics circa il potenziale del prodotto. "E quindi quando c’è una valutazione del valore inerente, se l’etica è corretta, se la cultura circostante è appropriata, allora si apre appunto un varco. Credo che questa compagnia lo avrà senza difficoltà." Gore è anche un amico personale del co-fondatore della compagnia, il dottor David Agus, che lui ha chiamato ‘uno che fa miracoli’, e l'ex principale consigliere interno di Gore, Greg Simon, dirige il gruppo di esperti che si occupa dell’etica e della politica della Navigenics.

Un chi è chi dei Venture Capitalists

Agus, direttore dello Spielberg Family Center for Applied Proteomics al Cedars-Sinai Medical Center di Los Angeles, si occupa di celebrità di Hollywood, dei reali sauditi, e di altre persone ricche, ma concepisce la società come un modo per evitare le malattie costose. Spera che Navigenics ispiri una rivoluzione sanitaria dalle masse, fornendo direttamente informazioni vitali ai consumatori, che a loro volta mobiliteranno i propri dottori. "Partire dal singolo individuo è il modo in cui cambieremo i dottori," dice Agus, "ed è il modo in cui cambieremo la medicina e i costi della sanità, eccetera— prevenzione della malattia."

Da novembre, altre due società hanno offerto ai consumatori test genetici basati sul Web. Mountain View (Calif.)-di base a 23andMe dà ai consumatori i loro dati genetici non elaborati così che essi possano esplorare la propria discendenza, la possibile predisposizione a malattie, oppure partecipare ad una rete di servizi sociali con altri utenti che desiderano condividere i propri profili genetici. E deCODE Genetics (DCGN), di Reykjavik, Islanda, cataloga i rischi genetici per 26 malattie e condizioni, fornisce dati relativi alla discendenza, e permette agli utenti di condividere le informazioni con altri. (Un portavoce di A deCODE sostiene che Google non possiede una partecipazione azionaria nella compagnia).

Un chi è che del mondo venture-capital sta rinforzando Navigenics. La startup ha completato il suo secondo round di conversione di un finanziamento a novembre, raccogliendo più di 25 milioni di dollari da Kleiner Perkins, Sequoia Capital, e Mohr Davidow Ventures. Mari Baker, un ex "responsabile-in-sede" alla Kleiner Perkins ed ex direttore generale di Intuit (INTU), è amministratore delegato di Navigenics. MDV ha anche finanziato 23andMe ma quella relazione è finita. Tra gli investitori individuali invece Scott Cook, un co-fondatore di Intuit, e il dottor Lubert Stryer, vincitore della National Medal of Science nel 2006, consulente per Affymetrix e professore emerito di neurobiologia alla Stanford University. La scuola è stata anche un primo investitore in Navigenics.

Progettare la competizione/gara/concorrenza

Stranamente, Navigenics e 23andMe non si considerano rivali. DuRoss di Navigenics afferma "23andMe ha adottato l’approccio di fornire un aspetto divertente, sociale e ancestrale al vostro DNA,"aggiungendo che la sua società "ha considerato l’idea che la scienza, l’utilità clinica, e l’abilità di fare qualcosa per la vostra salute sia di estrema importanza."

Wojcicki, in un’e-mail a BusinessWeek, ha detto "23andMe guarda alla genetica in modo olistico," aggiungendo, "Gli individui vogliono comprendere la componente della salute dei loro geni, ma vogliono anche la propria discendenza e confrontarsi con altri individui. Noi lavoriamo con un eccezionale comitato scientifico di consulenza [e] abbiamo concluso …che l’utilità clinica della maggior parte di queste informazioni è ancora sconosciuta. Speriamo che col tempo... avremo una comprensione maggiore di come queste informazioni potrebbero essere usate in una struttura clinica."

Nonostante tutte le sue promesse, il più grande ostacolo al test direct-to-consumer può essere la resistenza della comunità medica. L’American College of Medical Genetics raccomanda che "un professionista di cura della prevenzione sanitaria bene informato sia coinvolto nella gestione di test genetici basati sul DNA," ha scritto il presidente Joe Leigh Simpson in un e-mail. "Solo perché un test esiste non significa che sia adatto a tutti," ha affermato. "Molti dei nuovi test sul DNA che valutano la predisposizione a malattie possono fornire soltanto un rischio relativo, non una diagnosi assoluta."

Backman è un scrittore indipendente a New York City.

Fonte: http://freenfo.blogspot.com

Articolo originale: Google Wants to Index Your DNA, Too

Traduzione a cura di Giuraffa, che ringrazio per l'opera titanica ed estremamente difficile.

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Prelievo della saliva dei passeggeri sugli autubus inglesi


Gli autisti inglesi di autobus collezionano campioni di saliva dei passeggeri

A Londra gli autisti di autobus sono stati equipaggiati di kit per prelevare la saliva dei passeggeri. Secondo la polizia metropolitana, questo aiuterà a prevenire e diminuire gli episodi di oltraggio agli stessi autisti. Ovviamente i campioni di DNA prelevato dalla saliva verranno inseriti nel grande archivio statale, dal quale sarà possibile risalire alle persone implicate. Questo perché molti autisti vengono colpiti dagli sputi di alcuni passeggeri. Per cominciare mi verrebbe da chiedere, per quale motivo i passeggeri (“certo sicuramente squilibrati e ubriachi”, roba da matti) debbano sputare contro gli autisti. Successivamente vorrei capire quale eminente scienziato abbia coniato tale soluzione. Sembra strano prelevare un campione di DNA per un tale motivo, forse l’esasperazione delle politiche di sicurezza europee, non hanno altro modo per catalogare i cittadini. Questa assurda rincorsa alla schedatura di ogni individuo comincia a delineare gli scenari futuri. Sicuramente il prossimo passo sarà quello di formare i medici di base, equipaggiati con attrezzature da scena del crimine, per prelevare campioni biologici nelle nostre visite private. Rimango dell’idea che il problema sicurezza serve solo come incubo da inculcare nelle menti dei cittadini ignari, per averne il controllo di corpo, anima e mente. A quando il risveglio delle coscienze?

Fonte: http://freenfo.blogspot.com
Articolo originale:
Bus drivers take saliva samples

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martedì 27 maggio 2008

La fusione fredda funziona

Giappone, la fusione fredda funziona
Riuscito l'esperimento del professor Arata


di Laura Bogliolo
ROMA (22 maggio) - La fusione fredda sembra funzionare correttamente. Parola, anzi "fatti" di Yoshiaki Arata, 85 anni, una vita per la ricerca, che oggi, alle 19.30 ora locale all'Università di Osaka in Giappone, in un esperimento aperto al pubblico di esperti e a pochissimi giornalisti, ha sconvolto ogni teoria scientifica.

L'esperimento.
La prova è stata compiuta inserendo in un contenitore di acciaio riempito di deuterio gassoso nanoparticelle di una lega composta da palladio-zirconia. Il professore ha osservato le reazioni termiche e ha calcolato che il calore sprigionato è di 100 volte più forte se si fosse utilizzato l'idrogeno. L'energia sprigionata ha attivato un piccolo motore termico che ha azionato, a titolo dimostrativo, un ventilatore o un piccolo alternatore che ha acceso dei Led. Alla fine dell'esperimento Arata ha riscaldato le nanoparticelle di palladio e analizzato il gas rimasto intrappolato. Dall'analisi è emerso che si trattava di Elio 4, prova che c'è stata una fusione fredda. Con 7 grammi di palladio-zirconia si calcola che siano stati prodotti oltre 100 k-joule, reazione cento volte più intensa di qualunque reazione chimica nota.
Arata phenomena. La fusione fredda, ossia la Condensed-matter-nuclear-science, dunque sembra funzionare. Alla fine dell'esperimento il pubblico riunito ha deciso di chiamare la scoperta "Arata phenomena", decisione che ha emozionato il professore che ha ringraziato con un solenne inchino.

L'opinione degli esperti. Un grande passo nella ricerca scientifica quindi, come conferma Francesco Celani, primo ricercatore dell'Istituto Nazionale di Fisica Nucleare. «Si apre una nuova possibilità - ha spiegato Celani - in questo modo non vengono prodotti elementi radioattivi». Celani, collega e amico di Arata, subito dopo l'esperimento ha sentito il professore giapponese. «Mi ha detto che stava festeggiando - ha raccontato Celani - era molto contento, e scherzando mi ha detto che stava bevendo finalmente vicino a una bottiglia di sachè e non a una bobola in acciaio con deuterio...». L'esperimento rimane comunque dimostrativo come sottolinea il professore di fisica nucleare: «Le nanoparticelle di palladio sono estremamente costose - spiega Celani - la loro fabbricazione è complessa. Sulla Terra c'è poca disponibilità del materiale, la sua concentrazione è di 5 volte superiore a quella dell'oro, ma non basta». Il palladio è la stessa sostanza che viene usata anche per purificare i gas di scarico tramite le marmitte cataliche. Ogni marmitta ne contiene un grammo. La nuova frontiera quindi è trovare materiale che si comporti come il palladio ma costi di meno.

Si aspetta la pubblicazione scientifica. Il fisico Carlo Cosmelli, dell'università di Roma La Sapienza sottolinea che «negli ultimi anni le dimostrazioni sulla fusione fredda sono state numerose, ma nessuna è stata significativa». Soprattutto in Giappone, in Francia e negli Stati Uniti sono stati presentati test che però, una volta ripetuti a distanza di mesi da altri gruppi di ricerca, hanno dimostrato che l'energia prodotta alla fine era equiparabile a quella dell'energia immessa. «Inoltre - ha aggiunto Cosmelli - mi aspetterei che l'annuncio di un successo fosse accompagnato da una pubblicazione scientifica».

La fusione fredda. Da circa 20 anni molti scienziati fanno test sulla fusione fredda, ossia il processo di fusione di atomi con sviluppo di energia che riproduce a temperatura ambiente fenomeni analoghi a quelli che avvengono nel cuore delle stelle. Spesso si usano materiali molto semplici, sulla scia di quanto fecero il 23 marzo 1989 i chimici dell'università americana dello Utah, Martin Fleischmann e Stanley Pons.

Fonte: http://www.ilmessaggero.it

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Citycat: l'automobile ad aria compressa


Non inquina, è economica e fare un pieno costa meno di due euro. Entro un anno la Tata produrrà le prime seimila vetture ad aria compressa al posto della benzina. Dall'India arriva Citycat, l'auto del futuro.
Arrivate al distributore con la macchina in riserva, ma mentre tutti gli altri fanno la coda alla pompa di benzina, voi andate direttamente alla colonnina d'aria per controllare la pressione delle ruote. Infilate il tubo nel serbatoio e... pfft! in 3-4 minuti avete fatto il pieno.

Passate alla cassa, versate un euro e mezzo (contro i 60-70 degli altri) e ripartite sereni. La vostra macchina ad aria vi porterà per altri 200 chilometri fino al prossimo pieno. Non è un cartone animato e neanche uno spot visionario di qualche gruppo estremista dell'ecologia.

Dietro il progetto c'è la Tata, il più grande gruppo automobilistico indiano, appena reduce da un ambizioso accordo strategico con la Fiat. E, se tutto andrà come previsto, con qualche piccolo aggiustamento (ci vorrà un compressore ben più potente di quello delle ruote per sparare 340 litri di aria nel serbatoio), quella scena comincerà a svolgersi in India fra poco più di un anno, nell'agosto 2008, quando la Tata metterà in commercio le prime seimila Citycat, macchine ad aria compressa capaci di andare a 100 km l'ora e a emissioni zero, neanche una molecola di anidride carbonica e di effetto serra.

E l'India sarà solo il primo passo: ci sono già accordi per portare la Citycat in 12 altri paesi, fra cui Germania, Francia, Usa, Spagna, Brasile, Israele e Sud Africa.

Ai profani, il motore ad aria compressa appare un incrocio fra la locomotiva a vapore e il vecchio, caro fucile Flobert dei giochi di antichi bambini. L'idea non è nuova. Guy Nègre, la cui Mdi è il partner della Tata nel progetto, ci lavora, con alterna fortuna e parecchie false partenze (compresa una italiana, con la Eolo) dal 1991.

Sostanzialmente, si tratta di un motore a due cilindri, dentro cui si muove un pistone. Grazie ad un particolare design, il pistone non si muove in sincronia con l'albero motore. Per il 70% del tempo di rotazione dell'albero motore, il pistone resta fermo in cima al cilindro, consentendo alla pressione interna di crescere. Questo ritardo aumenta l'efficienza complessiva del motore, che si mette in azione quando l'aria compressa, sparata nel cilindro, fa muovere il pistone, esattamente come succede con il motore a scoppio.
Quando l'auto si ferma, si ferma anche il motore, che riprende a funzionare quando si pigia l'acceleratore. Non ci sono marce, sostituite da un computer. Semplice com'è, richiede manutenzione praticamente zero e un cambio d'olio ogni 50 mila chilometri. Anche le emissioni di anidride carbonica sono zero, salvo quelle legate all'elettricità per far funzionare il compressore al momento del pieno.
Ad aria, però, non si va più veloce di 50 chilometri l'ora, cioè in città. Su strada - come accade anche con le ibride benzina-elettricità - entra in funzione un normale motore a scoppio. In compenso, non c'è bisogno di andare dal distributore, per l'aria. A casa, si attacca la spina della corrente e un compressore interno, in 4 ore, ricarica il serbatoio. Un po' come accade per le più avveniristiche macchine elettriche.


Il costo di esercizio della Citycat è più o meno lo stesso di una macchina elettrica. Senza le batterie, però. Infatti, costa molto meno: la Tata dovrebbe commercializzarla ad un prezzo di 12.700 dollari, un decimo di una macchina elettrica. Per non parlare della macchina ad idrogeno, rispetto alla quale la Citycat ha anche il vantaggio di non richiedere la creazione di una costosa rete alternativa di distribuzione del combustibile.

Per come funziona, è gratis anche l'aria condizionata: quella che esce dal tubo di scappamento è, infatti, a meno 15 gradi. Il rovescio della medaglia è la difficoltà di riscaldare l'abitacolo e, forse anche per questo, Guy Nègre sembra guardare soprattutto a paesi caldi.

La temperatura dell'aria è anche all'origine del più consistente dubbio che i tecnici avanzano verso il motore ad aria compressa. L'aria così fredda, infatti, gela la condensa nei condotti di aspirazione, bloccandone il funzionamento.

Non è ancora chiaro come Nègre abbia risolto questo problema. Anche una Citycat perfettamente funzionante, peraltro, incontrerà seri ostacoli sui mercati occidentali. Per arrivare alle prestazioni dichiarate, infatti, l'auto deve essere straordinariamente leggera, e la Citycat è quasi tutta in fibra di vetro, molto fragile per reggere i normali test di sicurezza.

La Citycat, infine, potrebbe arenarsi in tribunale. Se Nègre è stato il profeta dell'auto ad aria compressa, altri ci hanno lavorato, come l'uruguayano Armando Regusci. Secondo alcuni, l'ultimo progetto di Nègre assomiglierebbe un po' troppo a quello brevettato da Regusci.
Se la Citycat arriverà su strada, aspettatevi una battaglia di brevetti.

Questo articolo è stato pubblicato originariamente da Maurizio Ricci su http://www.laleva.org, il 6 giugno 2007, con il titolo "Arriva la Citycat la macchina ad aria compressa al posto della benzina", sotto licenza Creative Commons 1.0.
Fonte: http://altraeconomia.blogspot.com

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50 KM con 1 litro eppure non si fa

E’ di ieri (22 maggio) l’annuncio del ritorno al nucleare dell’Italia.
Sembra di capire che i partiti maggiori sono più o meno tutti d’accordo.
Al di la dei costi di realizzazione, della reale o presunta pericolosità, del problema dello smaltimento delle scorie radioattive, rimane il fatto che l’energia nucleare viene presentata da tempo, dalla principale stampa, come l’unica seria alternativa al petrolio.
Ho molti dubbi in proposito ma non essendo un esperto non mi esprimo.

Ora, però, mi sono più comprensibili le pastoie burocratiche create in passato, e tuttora vigenti, per poter mettere in funzione un impianto fotovoltaico.
Mesi di attesa per ricevere l’autorizzazione ad allacciare in rete pannelli già acquistati e pagati da tempo, rimborsi ENEL che arrivano solo dopo 1 anno, ecc., ecc.
Chissà se questi ritardi sono collegati ai rumors del ritorno del nucleare in Italia da qualche tempo sussurrati in parlamento e non solo.
Guai se per caso in Italia fossimo arrivati ad avere una significativa produzione di energia con il fotovoltaico, come in Germania e in Austria.
Chi li avrebbe sopportati gli strali dei padroni dell’energia?
Quali pretesti usare per il ritorno al nucleare?
In ogni caso si parla di un tempo di attesa di almeno 6-7 anni per le prime realizzazioni di impianti nucleari (che nel bel Paese diventeranno almeno 10).
Nell’attesa continueremo a consumare petrolio e derivati, subendone gli aumenti di prezzo decisi a tavolino nel corso di una delle ultime riunioni del gruppo Bilderberg.

Nel campo dei trasport privati il mercato automobilistico offre le seguenti scelte:
Motori a benzina o gasolio;
Motori ibridi a benzina / GPL o Metano;
Motori ibridi elettrici / benzina;
Motori elettrici.

Ho un’auto ibrida benzina/GPL che va sostituita.
Il prezzo del GPL segue quello del petrolio (il GPL in 4 anni è passato da 0,50 a 0,70 centesimi di euro al litro).
Mi oriento quindi su una ibrida elettrica.
Mi informo da un rivenditore Toyota per l’acquisto della Prius.
Prezzo: da 23.000 a 25.000 euro, secondo gli allestimenti, valore già scontato dell’incentivo statale di 2.000 euro (così mi dicono).
Grazie al motore elettrico che opera sino a 50 km di velocità, i consumi dell’autovettura si aggirano intorno ai 20-25 km con un litro di benzina.
Interessante ma non eclatante.
Possibile che si debba continuare ad andare con un motore a scoppio che ha una tecnologia vecchia di oltre 130 anni?
Possibile che in questo settore non vi siano state innovazioni mentre in altri settori la tecnologia in essere 100 anni fa è considerata preistoria?
Che la lobby del petrolio controlli tutte le società che producono mezzi di trasporto?
Il sospetto è lecito.
Vado su internet e mi informo allora sulle auto elettriche (suggerisco di cliccare «auto elettriche» con Google. In un paio d’ore vi fate una cultura).
Vi sono diversi modelli: si va dalle city car a vere e proprie ammiraglie.
Il costo d’acquisto è elevato (si parte da 30.000 euro circa) ma è compensato in gran parte dal fatto che per una ricarica completa di energia, che garantisce una percorrenza di 150-160 km, si spende meno di 1 euro alle le attuali tariffe elettriche (si, avete letto bene: meno di 1 euro per 160 km).
I punti deboli sono altri: innanzi tutto la scarsa autonomia (non si arriva quasi mai a 200 km) e poi
i tempi di ricarica, che sono di almeno 2-3 ore.

In Finlandia l’attuale governo sta ovviando a questa situazione con la creazione di una rete per
la sostituzione di batterie in luogo delle attuali stazioni di servizio: l’automobilista si ferma, viene sostituita la batteria scarica con una carica, e riparte.
Non si paga la batteria, ma solo il servizio di ricarica.
Questo elimina in un sol colpo la scarsa autonomia ed il tempo di ricarica rendendo competitive
le auto elettriche rispetto a quelle con motore a scoppio.
Con questo sistema non vi sarebbero nemmeno scompensi sociali ed economici nel settore della distribuzione dei carburanti: le attuali stazioni di servizio verrebbero riconvertite nell’attività di sostituzione e ricarica delle batterie.

Sembra un sogno, tanto è semplice.
Eppure non si fa.
Lo stanno facendo in Finlandia.
Ma da noi nemmeno lo si dice.
Perché?
Sempre su internet mi informo meglio sulle auto elettriche e mi imbatto nella seguente notizia (tratta da un sito che si occupa principalmente di risparmio enegertico): … «Ma ancor più interessante è la possibilità di modificare alcune auto ibride che nascono con trazione mista benzina /elettrica per aumentarne di molto le prestazioni e per avvicinarsi al mondo delle auto elettriche in maniera più soft, …. Stiamo parlando ad esempio del kit plug-in (commercializzato nel suddetto sito alla sezione trasporto sostenibile) che permette di trasformare una normale Toyota Prius in una macchina puramente elettrica per almeno 50 km»…
L’articolo prosegue informando che in tal modo la Prius con 1 litro di benzina percorrerebbe 50 km.
50 km con un litro di benzina!
Non male davvero.
Telefono e mi informo meglio.

Scrivo anche ad un altro sito che si dedica al mondo dei veicoli elettrici e ricevo la medesima risposta: con questa modifica la Prius può percorrere 50 km circa con 1 litro di benzina.
Mi spiegano, però, che il kit in realtà è rappresentato dalla sostituzione delle attuali batterie utilizzate sulla Prius con altre al Litio più efficienti e moderne, da tempo presente sul mercato.
La sostituzione delle batterie tuttavia costa 12.000 euro e, soprattutto, fa cessare la garanzia su quelle vecchie.
Quindi l’operazione non è conveniente su una Prius nuova.
Chiedo allora al mio interlocutore perché queste batterie non sono montate già all’origine sulla Prius.
Tutti acquisteremmo un’auto che fa 50 km con un litro di benzina!
Risposta: proprio per questo non vengono montate.
Se no il petrolio a chi lo vendono?

50 km con 1 litro di benzina.
Eppure non si fa!
A chi giova? Inutile dirlo.
La risposta è nota a tutti.
Ma vi è un’altra notizia ancora più clamorosa che riguarda un’auto che va ad aria compressa nota
in Italia come «Eolo».
Quest’auto era stata presentata ufficialmente a Roma nell’aprile del 2001.
Poi è scomparsa.
Una piccola ricerca su internet porta a scoprire che l’autovettura esiste ancora ed è commercializzata a Carros, un piccolo paese vicino a Nizza (Francia) da una società che si chiama MDI Enterprises SA.
Ne commercializzano diversi modelli, ad un prezzo contenuto (9.700 euro per una city car).
L’auto non inquina, consente di percorrere 130 km ad un costo praticamente irrisorio (qualche centesimo di euro), e viene fornita con tanto di generatore per la ricarica.
Recentemente è stato firmato un accordo con la TATA per la produzione e la vendita di queste auto in India (ma solo in India).
Vi è tanto di modulo d’acquisto sul sito dell’azienda ma se lo compilate non ricevete alcuna risposta.

Mi informo e vado a Carros.
Scopro che l’azienda è stata fondata da un ex progettista Renault noto in Formula 1 negli anni ‘80, l’ingegner Guy Negre, il quale abita a San Remo (Italia) e va avanti e indietro da Carros con questa autovettura.
L’azienda, così mi dicono, non vende fuori Francia.
E’ però interessata a sottoscrivere contratti per la produzione dell’auto ad aria compressa su licenza in Paesi terzi, inclusa l’Italia.
Costo dell’operazione: oltre 6 milioni di euro più royalty annuali sulle vendite.

Me ne torno in Italia con le pive nel sacco, ma riprovo con un amico francese ad acquistare la macchina.
Vengo così a sapere che il motivo delle mancate vendite è dato dalla difficoltà di brevettare l’autovettura, con conseguente rischio che possano copiarla, per il semplice motivo che
il compressore ad aria compressa usato per le auto era già funzionante nel comune di Lille (Francia) dal 1919 al 1956.
Poi nel ‘56 venne eletto sindaco della città un ex dirigente di una nota casa automobilistica e tutto andò in soffitta.
Dal 1919, subito dopo la fine della I guerra mondiale, e sino al 1956, l’intera rete tranviaria di Lille andava ad aria compressa, senza inquinare e al solo costo della manutenzione degli impianti.
L’informazione è tuttora verificabile presso gli archivi comunali.
E allora perché non si fa?
Chi ci sta prendendo per i fondelli?

Il problema non è solo economico.
Nelle città italiane non si respira più.
I disturbi alle vie respiratorie sembrano in certi momenti dell’anno delle vere epidemie.
Quelle poche volte che vado in bicicletta a Milano anche per poco me ne torno con gli abiti sporchi dallo smog.

Non stiamo parlando di cospirazioni.
Stiamo parlando dell’aria che respiriamo tutti i giorni e facciamo respirare ai nostri figli.
E tutti fanno finta di non accorgersene.
Come se il problema non ci fosse o non li riguardasse.
Ma morire di tumore ai polmoni per arricchire i petrolieri mi sembra un po’ troppo.

Claudio Bianchini

Fonte: www.effedieffe.com

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lunedì 26 maggio 2008

Lo sboom del prezzo del petrolio


Goldman Sachs: aggiotaggio sul petrolio di Maurizio Blondet
Da settimane ormai i media ripetono la «previsione» emessa da Goldman Sachs: «Il barile arriverà a 200 dollari». E ciò, «inevitabilmente». Quel che non dicono i media è che Goldman Sach gestisce (e manipola) il GSCI, l’indice dei prezzi delle materie prime più usato nel mondo, e nel GSCI il greggio ha un «peso» sproporzionato.
Goldman Sachs ha anche contribuito a far nascere il London ICE Futures Exchange, attraverso l’Atlanta Georgia ICE (International Commodities Exchange), che possiede la filiale di Londra, e di cui Goldman è comproprietaria: e l’ICE, dal gennaio 2006, è stato esentato dall’amministrazione Bush persino dalle lievissime regole vigenti in America. L’organo di controllo sui futures americani, la Commodities Futures Trading Commission, che già non brilla per poteri di repressione, non ha accesso nemmeno ai dati degli scambi dell’ICE di Londra.
L’ICE di Londra è stato oggetto di due inchieste del Congresso USA (al Senato nel giugno 2006, alla Camera bassa nel dicembre 2007) le quali hanno appurato che i rincari del greggio sono causati da contratti futures per miliardi di dollari, improvvisamente aumentati in quantità, che avvengono appunto in quel «buco nero» finanziario.

Il rapporto senatoriale del 2006 ha scritto: «Ci sono là pochi gestori di fondi che sono maestri nello sfruttare le teorie sul picco petrolifero e i momentanei colli di bottiglia della domanda-offerta (1), e facendo audaci previsioni di straordinari rincari imminenti, essi gettano benzina sul fuoco rialzista in una sorta di profezie auto-avverantisi».
Insomma è chiaro: Goldman Sachs si è data i mezzi per manipolare al rialzo i prezzi del petrolio, e lo sta facendo con grande zelo. La sola domanda è come mai, dopo un simile rapporto del Senato USA, i suoi dirigenti non siano stati chiamati in giudizio per aggiotaggio o, come minimo, per conflitto d’interesse. Misteri del popolo eletto.

Manipolare i rincari attraverso i futures è facilissimo, perchè all’ICE si può comprare sulla carta una partita di petrolio ad una data stabilita (future, appunto), versando in anticipo solo il 6% del prezzo. Con un margine così lieve, gli speculatori hanno in mano una leva moltiplicatrice da 16 ad 1. Rischiando mille dollari, generano una domanda di 16 mila dollari di petrolio. Domanda fittizia.

William Engdahl (2) infatti avanza il sospetto che la bolla speculativa petrolifera stia per scoppiare (come già quella edilizia sub-prime), e Goldman usi la sua «profezia» e le sue manipolazioni per rifilare agli ingenui investitori (tipicamente, i devastati fondi-pensione USA) contratti di cui la stessa Goldman si sta silenziosamente disfacendo. Sarebbe interessante vedere le posizioni sui futures petroliferi della stessa Goldman, dice Engdahl, per constatare se ha impiegato i suoi capitali sulla scommessa che il greggio andrà a 200; se, insomma, crede alla sua profezia.

Naturalmente, dato che l’ICE di Londra è una stanza oscura o un buco nero, è quasi impossibile saperlo. Ma Engdahl ricorda che nel 2001, quando a salire prodigiosamente erano i titoli delle «dot.com», ossia di micro-aziende neonate, con due o tre dipendenti, che promettevano mirabolanti avanzamenti nel software e nelle telecom e il cui valore azionario saliva in modo astronomico in base a quel che i media magnificavano di loro, avvenne proprio questo: alcuni lupi di Wall Street spingevano all’acquisto di tali azioni sopravvalutate, mentre loro, zitti zitti, le vendevano; o magnificavano le azioni di compagnie in cui le loro banche-madri avevano interessi.
Poi, la bolla delle dot.com scoppiò, l’indice NASDAQ crollò, e un’altra inchiesta del Congresso appurò che i lupi di Wall street avevano rifilato anche notizie esagerate ai grandi media ufficiali proprio per vendere a caro prezzo le azioni che stavano per cadere. Anche allora si seppe tutto «dopo», quando ormai i lupi avevano le tasche piene, i fondi-pensione le casse vuote, e senza conseguenze penali.

I segnali che la bolla petrolifera sia gonfiata deliberatamente dalla speculazione finanziaria non mancano. In aprile, l’analista petrolifero di Lehman Brothers, Michael Waldron, intervistato dal Telegraph, ha dichiarato: «L’offerta di petrolio sta superando la crescita della domanda. Le riserve sono in aumento dall’inizio dell’anno». Pochi giorni dopo a Dallas, si riuniva la American Association of Petroleum Geologists, da cui usciva questa indiscrezione: «I prezzi del greggio caleranno presto drammaticamente; sarà il gas naturale a mantenere una tendenza al rialzo a lungo termine». Infatti, «una delle cose che è molto importante comprendere è che la crescita della domanda mondiale in petrolio non è tanto forte», ha detto David Kelly, l’analista strategico della J.P.Morgan funds. Infatti la domanda è piatta, e ciò non giustifica i rialzi.

Cresce alquanto in Cina, ma cala in USA per la recessione americana: attualmente di 190 mila barili al giorno secondo i dati ufficiali dell’Energy Information Administration (ente del governo USA). E per valutare il dato occorre aver presente la differenza tra USA e Cina: la Cina consuma 7 milioni di barili al giorno, gli USA il triplo, 20,7 milioni barili al giorno. Un calo americano conta dunque molto più, sui mercati, di una accresciuta domanda cinese.

La quale, peraltro, non è poi così esplosiva come ci raccontano i media (e Goldman): secondo l’ente ufficiale USA suddetto, la domanda cinese aumenterà quest’anno di 400 mila barili/giorno, un aumento non tale da turbare i mercati, rispetto ai 3,2 milioni di barili al giorno che la Cina importa.

E’ nel più grosso consumatore mondiale, l’America, che si sta profilando un calo dei consumi, che diverrà via via più pronunciato quanto più la recessione americana morderà i consumi delle famiglie, colpite dai pignoramenti, dai debiti, dalla disoccupazione crescente. Secondo Master Card, in un rapporto del 7 maggio, la domanda americana di carburanti è scesa di un imponente 5,8 %.
Difatti, le riserve petrolifere americane aumentano («Per prepararsi alla guerra con l’Iran», dicono gli aggiotatori: ogni allarme è buono per tener alti i futures), mentre le raffinerie hanno ridotto i loro ritmi di raffinazione per affrontare la domanda calante: oggi lavorano all’85 per cento delle capacità, contro l’89 dell’anno scorso. E tengono basse le loro riserve di benzina allo scopo di sostenere i prezzi e i profitti.

Come non bastasse, nuovi giacimenti entreranno in produzione nel 2008, aumentando l’offerta. L’Arabia Saudita ha in progetto di aumentare di un terzo l’attività estrattiva, e di accrescere gli investimenti nel settore del 40%, per soddisfare la crescente domanda dell’Asia. Dall’anno prossimo la sua capacità di estrazione aumenterà dell’11% rispetto all’attuale.

Già nell’aprile scorso funziona il nuovo campo petrolifero saudita di Khursanyah, aggiungendo all’offerta globale mezzo milione di barili al giorno di pregiato Arabian Light Crude; dal 2009 il giacimento di Khurai, il più grosso dei nuovi progetti di sfruttamento sauditi, aggiungerà 1,2 milioni del miglior greggio (e al più basso costo estrattivo) alla offerta mondiale.

In Brasile, la Petrobras sta cominciando a sfruttare il giacimento offshore di Tupi, che si valuta in 8 miliardi di barili, e dovrà portare il Brasile fra i primi dieci produttori globali, sotto la Nigeria ma sopra il Venezuela. In USA, la US Geological Survey ha riferito di nuove riserve in un’area che va dal North Dakota al Montana, e che stima in 3,65 miliardi di barili.

L’Iraq ha riserve valutate non inferiori a quelle saudite, se solo il disordine americano non ne impedisse lo sfruttamento. E si tenga presente che già a 60 dollari il barile, diventano convenienti economicamente una quantità di pozzi chiusi quando il barile era a 27.

Insomma: la domanda non cresce, l’offerta aumenta - eppure, misteriosamente, i prezzi salgono. Non durerà molto: anche questa bolla scoppierà. Quando?

Questo lo deciderà Goldman Sachs, quando riterrà di averci depredato e impoverito abbastanza. Per intanto, tutti i media gridano con il padrone: «Petrolio a 200!».


1) Infinite notizie vengono diffuse, il cui effetto è rincarare i futures petroliferi: oggi sono disordini in Nigeria, domani un oleodotto fatto saltare in Iraq, dopo domani la Guerra imminente in Iran, o la «domanda insaziabile» in Cina. I rincari vengono inoltre spiegati in base al «rischio terrorismo» che impone un sovrapprezzo, e col «picco petrolifero». Tutte ragioni plausibili. Il fatto è che si addensano negli ultimi tempi, provocando istantanei colli di bottiglia per ingorgo di domanda da panico.
2) William Engdahl, «More on the real reason behind high oil prices», GlobalResearch, 21 maggio 2008.

Fonte: http://www.effedieffe.com

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domenica 25 maggio 2008

Riscaldamento globale!

Oggi è domenica....ogni tanto possiamo rilassarci un pò.....




























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